The nightmare’s finally over: evadere dal (proprio) Luogo Buio giocando ad Alan Wake II

Ho iniziato Alan Wake II con discreto ritardo rispetto alla maggior parte di voi. Le ragioni sono molteplici: non avevo la Spada di Damocle della recensione che pendeva sulla mia testa; in generale, non ne posso più della Fomo, dell’hype e di tutto ciò che ne consegue – avevo letto molto, troppo, sulle mie diverse timeline social da averne già abbastanza al decimo post che ci ficca forzatamente dentro David Lynch perché, quando si parla di autorialità, se non lo citi, non sei nessuno; ma soprattutto, cosa più importante, non ne avevo voglia. Ma proprio zero. Apatia totale.

Vi capita mai di desiderare di giocare a qualcosa, ma al tempo stesso di non sentirvi nel giusto stato d’animo per farlo? La fine del 2023 è stata di una pesantezza unica da un punto di vista fisico, ma soprattutto mentale: aprivo un foglio di Word e provavo disgusto, il che è un problema piuttosto grave se un buon 90% del tuo lavoro dipende dallo scrivere. Figuriamoci giocare, soprattutto quando sei costantemente martellata da racconti entusiastici e no, tu non ne hai veramente voglia di sorbirti e sciropparti il tuo ennesimo senso di vuoto, il tuo ennesimo confronto con una realtà esterna diversa da quella tua interiore, la tua ansia da prestazione, perché non provi più nulla di fronte a qualcosa che è nata per intrattenerti.

Ho messo su Alan Wake II un pomeriggio perché dovevo effettuare un paio di test per lavoro e, di nuovo, quel senso di noia – ma ok, vado avanti che non si sa mai. Colleziono una decina di ore in qualche giorno, giocando nei momenti morti: stava iniziando a ingranare, ecco i primi collegamenti ai vari Control, Quantum Break, stavo finalmente uscendo da quella sensazione di indolenza…e poi…

File in cloud corrotto.

Ho perso tutto.

Un fottuto aggiornamento del gioco mi ha cancellato ogni cosa.

L’ho trovato un ironico pain-in-the-neck, una sorta di punizione divina perché, dopo tanto tempo, stavo di nuovo riprovando gusto a giocare; e proprio per questa ragione, il videogioco si è ribellato a me. Sei stata una stronza, mi ha maltrattato per troppo tempo e adesso, sul più bello, ti rimetto in riga. Ci sta. Nel senso che no, ho lanciato le peggiori imprecazioni possibili quando è successo, ho maledetto i Remedy e tutta la loro stirpe passata e futura; ma alla fine, passata l’incazzatura (durata all’incirca una settimana) e complici le vacanze natalizie, mi sono rimessa di buona lena e ho ricominciato tutto dall’inizio.

Una nuova bozza.

Ma più andavo a fondo della storia del gioco, più scavavo nelle sue pieghe, e più mi sentivo attratta dal Luogo Buio. Una stanza con sole due finestre – simili a due occhi sul nulla – una scrivania, una sedia, una macchina da scrivere e due lavagne. Gli appunti, quelli che – nonostante usi solo ed esclusivamente il PC per fare qualsiasi cosa – ho ancora l’abitudine maniacale di prendere su foglietti volanti o vecchi block-notes per costruire e disfare il discorso, più e più volte. Un loop in cui, esattamente come Alan, ero intrappolata da mesi, dove quelle parole che avrebbero dovuto essere una salvezza (mentale) mi si stavano ritorcendo contro. L’opera d’arte perfetta, l’ossessione per l’opera d’arte perfetta si stava tramutando in un incubo. Art must be beautiful, artist must be beautiful. E poi un pensiero a Immortality, fugace, potente, come una scarica elettrica.

Alan Wake II mi stava guardando dentro in modo inconsapevole. Il Luogo Buio stava prendendo forma per la prima volta dopo mesi, era palpabile, aveva finalmente preso corpo e ho potuto definirne i contorni. The Dark Place è quello spazio che portiamo dentro di noi, in cui ci nascondiamo per fuggire da una realtà di cui abbiamo paura. È una zona di comfort all’incontrario, dove i timori e le insicurezze vengono amplificati a dismisura, ci attanagliano, ci fanno sprofondare in un baratro – e da cui facciamo fatica a scappare. Perché nonostante odiamo stare lì, è più facile stare lì; e più proviamo a trovare scappatoie e più quel luogo ci trascina sul fondo come un macigno legato ai piedi.

Il Luogo Buio è non il non sentirsi mai abbastanza, è la sindrome dell’impostore, è il dolore dopo un lutto, è la Depressione. È una stanza in cui urliamo nel silenzio, in cui troviamo apparente rifugio perché il mondo esterno non è in grado di cogliere la sofferenza che ci portiamo dentro. Il Luogo Buio è un tentativo di viaggio dal basso verso l’alto, è un iter di discesa in attesa dell’ascesa.

Ma da cui si evade, ad un certo punto.

Con un interruttore che si accende, accecante e potente. Alan Wake II ha funzionato, per certi versi, quasi quanto una prima seduta di analisi, in cui mi sono guardata dall’esterno per la prima volta dopo tanto tempo. È arrivato in un momento in cui ho toccato il fondo e non avevo piede, e più provavo a trovare un appiglio e più andavo giù. Più prendevo appunti, più non vedevo quello che stavo scrivendo; più provavo ad uscire, e più una forza mi spingeva all’indietro. Ho sentito sulla pelle il viaggio di Alan, il viaggio di Saga Anderson, di Alice Wake – che ha insito un forte dualismo nel suo nome, diviso tra la curiosità morbosa del personaggio carrolliano e la capacità di risvegliarsi dal sogno (o dall’incubo). Dubito che gli intenti di Remedy fossero questi, ovviamente, ma è stato il modo con cui – dopo un viaggio tormentato che mi ha trascinato per i piedi alla fine del 2023 – mi sono approcciata al 2024.

Iniziando a scrivere l’Ultima Bozza.

Con la consapevolezza che le chiavi per uscire dal Luogo Buio ci sono, ma che bisogna tornare sui propri passi più e più volte per trovarle. Senza fretta, un passo alla volta. Lasciando andare, riappropriandosi di ciò che si è stupidamente lasciato indietro.

Parola dopo parola.

I was trapped in a thousand nights with no escape
Nightmares taking me over
And now I’m wide awake
And now I’m wide awake
Oh I died like a million times through the waves I break
The nightmare’s finally over
And now I’m wide awake
And now I’m wide awake
(“Wide Awake”, Jaimes)

I Game Awards: come ti annichilisco il videogioco

La noia per il nulla. Un’apatia che pesa come un macigno generata da una cultura dell’hype che, ad oggi, è più ingombrante che mai. Oltre tre ore fiume di diretta per un palcoscenico egoriferito, dove più che dare spazio al videogioco si fa a gara ad accaparrarsi World Premiere e ospitate eccellenti. Ma, in fin dei conti, non ne esco così sorpresa: i Game Awards sono lo specchio di ciò che il videogioco è stato costretto a diventare negli ultimi anni, ossia uno strumento atto ad appagare la fame insaziabile di giocatori avidi, amanti delle abbuffate di cui, alla fine e nella maggior parte dei casi, non ricorderanno neanche il sapore.

Una sequela infinita di trailer, intervallata da momenti auto-referenziali di Geoff Keighley, a cui noi spettatori da casa siamo sottoposti quasi come in una Cura Lodovico in Arancia Meccanica: ingurgitiamo immagini di giochi per cui, boh, nella maggior parte dei casi non ci resterà che un vago ricordo, primi assaggi di titoli che non possono e non vogliono dirci nulla, ma di cui – per qualche ragione – sviluppiamo una necessità ossessiva di avere. Un po’ perché altrimenti rischiamo di restare fuori da quel chiacchiericcio social in cui sentiamo l’obbligo morale di essere parte attiva, un po’ perché il videogioco oggi è percepito sempre più come prodotto, alimentato da una comunicazione votata esclusivamente a diffondere la sua natura commerciale e sempre meno quella culturale (a parte poche straordinarie eccezioni).

Ne sono assuefatta e al tempo stesso nauseata. Faccio molta fatica, oggi, a riconoscermi in quel pubblico che si esalta davanti un singolo frame del nuovo gioco di un grandestudioacaso, non mi rivedo in quel pubblico che applaude come scimmie ammaestrate al logo di studiotaldeitali. Mi resta addosso poco o nulla di quello che vedo, nutro sempre meno interesse in quello che muove le fila di questo settore. Mi sento fuori luogo a celebrare il videogioco in pompa magna, quasi fossimo ad una serata degli Oscar, quando nelle ore appena precedenti alla kermesse vengono annunciati tagli di personale e licenziamenti in piccoli e grandi studi di sviluppo. Che cazzo ci sta succedendo? Siamo ottenebrati dai lustrini, dallo sfarzo, dal fottuto hype; siamo caduti in una trappola d’oro, di cui del videogioco in sé non ce ne frega più nulla. Arricchiamo librerie di grandi piattaforme, spendendo capitali, senza avere il tempo materiale per giocarli tutti. I famosi backlog ci che trasciniamo dietro con vergogna, con giochi che continuiamo ad accumulare come i tetramini del Tetris. Forse era questa la vera metafora del gioco di Aleksej Pažitnov?

Da questi Game Awards ne esco sconfitta, svilita, sopraffatta. Nonostante non siano mancati titoli per cui ho sentito davvero qualcosa – un po’ per affezione e un po’ per puro interesse personale – il resto dello show mi è scivolato addosso. Manca un’anima pura in queste rassegne, tutto è diventato inutilmente caotico, tutto è diventato esageratamente urlato. È come se avessimo tutti il dovere di applaudire, di entusiasmarci, di celebrare un’industria che sempre più ci vuole allineati, uniformati, omogenei. E con questo non intendo dire che dobbiamo smettere di goderci i grandi titoli, piantarla di attendere con genuino entusiasmo produzioni importanti; la mia non è e non vuole essere una crociata contro un’ampia fetta di videogiochi in favore di altri, ma piuttosto vuole esserlo nei confronti dei modi in cui il videogioco – soprattutto quello di largo consumo – è oramai comunicato da tanto, troppo tempo.

Ciò che voglio dire è: tiriamo il freno per un attimo, finiamola di alimentare e farci divorare al tempo stesso da un sistema che andrebbe stravolto dall’interno. Mi piacerebbe che il videogioco venisse nuovamente messo al centro di questi grandi eventi, e non che fosse l’evento in sé a diventare il centro gravitazionale di tutto. Non ho più voglia di guardare e subire, ma vorrei più tempo per osservare e immagazzinare. Vorrei più tempo per riflettere su quello che è diventata l’industria videoludica in sé, avere il modo di esplorare tutte le sue sfaccettature.

Ciò che è andato in scena ieri non mi piace più, non mi appartiene più.
O forse a non piacermi più è il sistema interno che ha annichilito il videogioco.
Poco alla volta.

Di bene e male: Il doppio femminile nel videogioco contemporaneo. Il caso Hellblade: Senua’s Sacrifice

Di solito non amo “riciclare” articoli, ma sto lavorando ad un progetto editoriale importante in questo ultimo anno che mi ha “costretto” a rimettere insieme molte mie produzioni del passato; compreso questo breve saggio che scrissi per “Leggendaria. Libri, letterature, linguaggi” nel maggio 2019. Il tema straordinario di quel numero 135, “Sul doppio”, è auto-esplicativo: una riflessione sul perché, a partire dalla tradizione orale e dalla letteratura, si è sempre fatta molta fatica a parlare di “doppi”, della coesistenza di bene e male, nei personaggi femminili. Viene da sé che la problematicità nel parlare di doppio nei personaggi femminili è sostanzialmente legato a doppio filo al tema della maternità, che è uno dei fattori che molto spesso impedisce a quelle figure narrative di poter covare (anche) al proprio interno un dualismo.

Per quel numero scelsi di parlare di Senua, la protagonista di “Hellblade: Senua’s Sacrifice” in quanto racchiude uno degli esempi più potenti nella rappresentazione nel doppio, nella dualità che coesiste in ogni essere umano – a prescindere dal loro genere.

Il titolo scelto e poi uscito sul numero di “Leggendaria” fu “Il lato oscuro di Senua, eroina dei videogiochi”, ma qui ho deciso di recuperare quello originale, che mi pare oggi più incisivo. Nel caso vogliate recuperare l’intero numero (che consiglio caldamente, perché ha analisi valide e interessanti anche a distanza di quasi 5 anni), la rivista è “Leggendaria. Libri, letterature, linguaggi”, n. 135 maggio 2019.

In principio è stata la ricerca di un doppio, un doppio digitale che fosse in grado di rappresentare la donna all’interno di un medium, il videogioco, che a partire dagli anni Ottanta ha assistito ad una profonda penetrazione nei nostri salotti. Oggetti del desiderio o trofei da conquistare, o semplicemente elementi estetici per appagare lo sguardo maschile, i personaggi femminili hanno avuto un ruolo molto marginale all’interno delle dinamiche narrative nei primi anni del videogioco, un aspetto che ha allontanato a lungo le donne (reali) dai suoi mondi digitali in quanto incapaci di trovare un “doppio” in cui identificarsi sullo schermo.

Ma c’è un motivo – anche e soprattutto di natura tecnica – dietro la scarsa presenza, per non dire assenza, di protagoniste femminili agli albori della storia del videogioco: la tecnologia alla base del medium dell’epoca era incapace di offrire forme narrative più complesse, oltre al fatto che l’uso di archetipi e strutture fiabesche – come quelli teorizzati da Vladimir Propp, Joseph Campbell e Christopher Voegl – fosse indispensabile per offrire un contesto narrativo al gameplay (un concetto di difficile classificazione e di costante dibattito all’interno del dibattito teorico dei game studies, ma che può essere inteso come il modo in cui i giocatori si relazionano al gioco e ne fanno esperienza anche in assenza di una reale sfida ludica), che fosse immediato e semplice. Infine, in questi primi anni di esistenza, la narrazione funge principalmente da pretesto all’azione e all’interazione, che invece svolgono un ruolo primario nell’esperienza videoludica, e dunque l’importanza dei suoi personaggi ai fini di un racconto più corposo e strutturato viene essenzialmente meno.

Bisogna attendere la metà degli anni Novanta del secolo scorso prima che le donne, e ancor più le giocatrici, trovassero un personaggio fatto di pixel che potesse rappresentarle e che, al contrario di chi le aveva precedute (con sola eccezione di Samus Aran, la protagonista della serie Metroid), fosse il vero motore narrativo delle loro avventure digitali. In un mondo sostanzialmente popolato da eroi macho bianchi ed eterosessuali nei videogiochi action di quegli anni (come ad esempio Doom e Quake, rispettivamente del 1993 e 1996), si fa largo Lara Croft, la protagonista di una serie diventata molto popolare nota come Tomb Raider. È molto probabile che molti ricorderanno Lara Croft nell’interpretazione offerta dall’attrice Angelina Jolie in una saga cinematografica omonima (Lara Croft: Tomb Raider, 2001; Tomb Raider – La culla della vita; 2003), ma la prima e originale Lara Croft muove i primi passi nel mondo dei videogiochi, grazie all’idea di uno studio di sviluppo britannico chiamato Core Design.

Correva l’anno 1996 e la società di produzione Eidos Interactive era pronta ad effettuare una svolta molto importante con Lara Croft, un’archeologa affermata e coraggiosa (una sorta di Indiana Jones al femminile), ma al tempo stesso la compagnia non è stata analogamente audace nel modellare le fattezze fisiche della sua eroina. Affidandosi ad un giovane character designer chiamato Toby Guard, Eidos e Core Design danno vita ad un personaggio che è più facile riconoscere come un “corpo in movimento” (una brillante definizione data al personaggio da due studiose, Giovanna Cosenza e Agata Meneghelli) volta ancora ad appagare lo sguardo maschile, anziché un personaggio che si distingue per la sua personalità. Per fare in modo che il pubblico di videogiocatori (in prevalenza maschile all’epoca) non venisse eccessivamente spiazzato dall’idea di “interpretare” una donna sullo schermo, Guard, infatti, tratteggiò Lara Croft con curve sinuose e prorompenti affinché i giocatori avessero “qualcosa da guardare” mentre sparavano a lupi feroci e scalavano alture per esplorare il mondo di gioco.

Quella che, ad oggi, sembra una pratica piuttosto riduttiva nel presentare un personaggio all’interno delle dinamiche narrative di un videogioco rappresenta, in realtà, un cambiamento importante: quello che fino ad allora era stato uno spazio riservato in esclusiva ai “maschi”, si apre per la prima volta alle donne, le quali, hanno finalmente una protagonista in cui riconoscersi – non tanto per la sua estrema e iper-sessualizzata fisionomia, quanto più per il suo essere una donna forte, coraggiosa, che non ha più bisogno di essere salvata. Eppure, nonostante gli abiti di Lara Croft continuassero a restringersi e le sue curve a pronunciarsi sempre più, il fenomeno a cui aveva dato vita la protagonista di Tomb Raider era oramai inarrestabile e, quello che viene definito un vero e proprio “Fenomeno Lara Croft”, apre le porte a sempre più eroine nel mondo dei videogiochi e alla conquista di una complessità emotiva e caratteriale, che è oggi uno dei caratteri fondanti del mezzo videoludico.

La stessa Lara Croft – nata come “bomba sexy”, al tempo stesso determinata e agguerrita – ha subito una metamorfosi molto importante nei suoi oltre vent’anni di storia, diventando un personaggio molto diverso rispetto a quello originale. Smessi gli abiti succinti e il suo sguardo ammiccante, la protagonista di Tomb Raider è oggi un’eroina a tutto tondo, che offre una rappresentazione della donna completamente diversa e diversificata rispetto al 1996. Il nuovo videogioco – in quanto prodotto culturale pienamente inserito nel dibattito sociale contemporaneo e non più solo come forma d’intrattenimento fine a se stessa – ha assistito ad un mutamento della rappresentazione femminile e della sua forma narrativa, in cui le numerose eroine di questi universi digitali (tra cui Aloy di Horizon: Zero Dawn, Max e Chloe di Life is Strange, o ancora Senua di Hellblade: Senua’s Sacrifice) sono passate dall’essere “donne oggetto” per compiacere uno sguardo maschile a “donne soggetto”. Inoltre, esattamente come avvenuto in altri media quali il cinema e la televisione, il videogioco ha abbracciato forme narrative complesse anche grazie ai cambiamenti tecnologici che ha assistito negli ultimi anni – un aspetto che ha permesso agli sviluppatori di dare vita ad uno storytelling più articolato anziché affidarsi agli archetipi come in passato – per cui gli stessi personaggi non sono più facilmente ascrivibili all’interno di categorie narrative ben precise.

Le attuali “donne videoludiche” sono personaggi caratterizzati da mille sfumature, che vivono molto spesso una dualità e una conflittualità interiore, che le porta ad essere inafferrabili ma, al tempo stesso, incredibilmente affascinanti e “vere”. Ad incarnare al meglio questo “doppio”, o meglio, questa “molteplicità” interiore delle eroine videoludiche contemporanee – ma che si rispecchia anche in un doppio esteriore, con cui entrano inevitabilmente in conflitto – è probabilmente la protagonista di Hellblade: Senua’s Sacrifice, l’eroina norrena Senua. Sviluppato da uno studio chiamato Ninja Theory, Hellblade: Senua’s Sacrifice segue le avventure di una guerriera pitta, Senua appunto, che ha intrapreso un viaggio verso l’Helheim (il Regno dei Morti secondo la mitologia norrena), per chiedere alla dea Hela di resuscitare il suo amato Dillion, morto durante un’invasione da parte dei Norreni.

Quello che sembra un canonico viaggio dell’eroe, dove però a vestire i panni della salvatrice è una giovane guerriera, si tramuta ben presto in un difficile viaggio interiore, in cui Senua – affetta da psicosi – si trova costretta a fare i conti con il suo passato e, in particolare, con la figura di suo padre, un druido profondamente religioso chiamato Zynbel. Incapace di comprendere la malattia mentale della figlia (di cui è affetta anche la moglie, la sacerdotessa Galena), ritenendola piuttosto una maledizione da parte degli dei, Zynbel viene spinto a sacrificare la moglie su una pira e a educare Senua con insegnamenti sempre più violenti, sia fisici che psicologici, per reprimerne quelli che lui considera poteri oscuri. Quando Senua conosce Dillion, un giovane ragazzo che sembra portare finalmente un po’ di luce in una vita fino ad allora costellata di sofferenze, decide di affrontare suo padre – che rappresenta anche il male e il dolore che la stanno consumando lentamente – e scappare via. Ma quella che sembra una breve pausa di serenità si trasforma presto in un incubo, che le strappa l’amore della sua vita dal mondo terreno, fino a trascinarla nuovamente nella follia.

Il racconto che si snoda all’interno di Hellblade: Senua’s Sacrifice è brutale, esattamente come la sua eroina: l’oscurità che la circonda, l’ombra soffocante che la insegue nel suo viaggio verso l’Helheim, rappresenta il passato dal quale prova a rifuggire, ma invano. Il finale amaro che accompagna le ultime sequenze di Hellblade, poco prima dei titoli di coda, è suggestivo quanto spiazzante: i giocatori sono costretti ad imbattersi in uno scontro finale con la dea Hela da cui Senua, suo malgrado, non ne uscirà vincitrice. Per quanto affondi la sua spada magica nell’evanescente e gigantesca ombra che continua ad attaccarla senza sosta, la guerriera è vittima, ma anche carnefice, della sua stessa follia. E infatti, l’unico modo per concludere il gioco è mollare il combattimento, e dunque soccombere all’oscurità, farla diventare parte di sé, fare in modo che quelle voci che tormentano Senua dal profondo prendano il sopravvento. Per trovare finalmente la pace.

L’accettazione del male e del dolore che sono parte della sua vita – incarnate rispettivamente dal padre e dalla madre, rappresentazione di metà della sua anima tormentata – così come della morte di Dillion, è il modo per Senua di prendere consapevolezza di sé, di rinascere. Imparando ad accettare quel lato oscuro della sua esistenza, che ha contribuito a forgiare l’eroina che è diventata in quel lungo e difficile percorso, la giovane si lascia alle spalle l’Helheim, pronta per quella che sarà la sua nuova vita d’ora in avanti. Più che eroina, Senua è un’antieroina, un personaggio che incarna l’imperfezione, portatrice di un’ambivalenza genitoriale, ma da cui prova a risorgere, proprio come una fenice. Lasciandosi alle spalle i suoi doppi o forse, più semplicemente, facendo pace con essi.

Non saremo più l’Eroe, non saremo più Link: perché il film di The Legend of Zelda rischia di snaturare l’opera

Se c’è una serie videoludica che mi ha cresciuto e ha alimentato la mia passione per questo medium, quella è The Legend of Zelda. Non ho iniziato dal primo, quello del 1986, perché non ho mai posseduto un Nintendo Entertainment System (l’ho recuperato in età avanzata), ma il mio primo grande amore è sbocciato con lui, A Link to the Past. Il gioco mi arrivò in bundle quando comprai il mio SNES usato (ma pari al nuovo) da un mio caro amico, nonché compagno di classe, in terza o quarta elementare – lui voleva imparare a suonare la chitarra e io volevo una console tutta mia dopo anni di Commodore64, un compromesso equo. Dopo aver consumato Super Mario World e Street Fighter II Turbo fino allo sfinimento in compagnia di mio padre, decisi che era il momento di dare una chance a quella pila di altri titoli che avevo ereditato dal mio amico Riccardo; e la scelta cadde proprio su The Legend of Zelda: A Link to the Past, fiero nella sua etichetta dorata e con quel logo che aveva con sé qualcosa di magico.

Mi piacque nell’esatto istante in cui apparve la Triforza sullo schermo e sentii la sua potente intro musicale. Il gioco era in inglese, ovviamente, ma imparai comunque a destreggiarmi e a muovermi nel Regno di Hyrule pur capendo due parole su quindici. Era il mio rifugio sicuro e il momento che più di tutti assaporavo quando tornavo da scuola: solo io e Link, quell’eroe muto dalle orecchie a punta, con cui stavo condividendo un percorso.

The Legend of Zelda è diventata una parte importante della mia vita, una saga che per certi versi ha rappresentato una costante necessaria nel mio difficile viaggio dall’infanzia all’età adulta. C’era Link con me quando a 13 anni ho lasciato la mia città, e c’era ancora una volta Link quando, da adolescente turbolenta e svogliata, avevo bisogno di uno spazio tutto mio dove dimenticare il mondo esterno. E questo perché Link era il mio collegamento con un universo alternativo, rompeva quel limen imposto dallo schermo della tv e mi ci catapultava dentro. Un eroe che non ha mai detto una parola (a parte qualche verso, ma in modo limitato) perché, a detta del suo stesso creatore Shigeru Miyamoto, questa scelta avrebbe permesso al giocatore di immedesimarsi meglio nel personaggio. Immedesimarsi meglio nel personaggio.

Stamattina, come tutti voi, ho leggiucchiato le notizie pubblicate nella notte e mi sono imbattuta in quel tweet sul canale ufficiale di Nintendo: per i meno mattinieri o i ritardatari, Shigeru Miyamoto ha annunciato la lavorazione di una pellicola live-action dedicata a The Legend of Zelda. Ad affiancare Miyamoto-san in questa operazione titanica, Avi Arad – l’uomo che ha praticamente prodotto la prima parte del Marvel Cinematic Universe, diversi Spider-Man e il film di Uncharted con Tom Holland – e il regista Wes Ball, l’uomo dietro la macchina da presa della trilogia di Maze Runner. Non è questa la sede per discutere delle persone coinvolte nel progetto – prima o poi lo farò, solo per il piacere di togliere dalla polvere quella laurea in Storia e Critica del Cinema ottenuta diversi anni fa – ma proviamo a fare un ragionamento diverso: perché? Perché proprio The Legend of Zelda e perché farne un film live action? – però, se volete approfondire un po’ il mio pensiero sul perché, in generale, gli adattamenti live action al cinema di prodotti videoludici non funzionano come dovrebbero, vi rimando a questo pezzo scritto qualche mese fa.

Da fan della serie, da amante di quell’universo, mi sento profondamente delusa perché viene ufficialmente a cadere uno dei capisaldi della saga, ciò che è sempre stato il suo cuore: Link siamo noi, noi siamo gli eroi silenziosi di The Legend of Zelda. Link non parla perché è l’unico modo di offrire al giocatore l’opportunità di essere e sentirsi quel personaggio; e anche il fatto che, anche nel suo aspetto estetico, Link è un personaggio fluido, rimarca ulteriormente il concetto. È facile empatizzare con Link perché, nel suo mutismo, racchiude in sé il timore, l’emozione, il coraggio, la fatica, che tutti noi proviamo virtualmente quando interpretiamo quell’avatar. Come è possibile ricreare quel collegamento, quel contatto unico, in una pellicola live-action dove il suo protagonista, per forza di cose, dovrà parlare?

Perché, siamo onesti, oramai siamo abituati a film eccessivamente verbosi, sovraccarichi di parole, per riuscire a immaginare un adattamento per il grande schermo (con ambizioni mainstream, senza dubbio, anche sull’onda del successo del film animato di Super Mario) di The Legend of Zelda senza dialoghi da parte del personaggio principale. Se è vero che la serie (videoludica) da Breath of the Wild in poi ci ha abituato al doppiaggio di alcuni personaggi – anche importanti, a partire dalla stessa Zelda – Link è sempre rimasto muto. E dubito che nelle intenzioni artistiche di Wes Ball, abituato a maneggiare prodotti di largo consumo, ci sia spazio per un The Legend of Zelda in chiave The Artist.

Il film di The Legend of Zelda rischia di spezzare un incantesimo, di infrangere quello specchio (poroso) attraverso cui, per tanti anni, abbiamo visto noi stessi attraversare le sconfinate lande del Regno di Hyrule, affrontare pericoli, farci alleati lungo il percorso e sradicare la calamità Ganon (o annientare Ganondorf). La mia paura è che venga meno l’identità profonda e unica di The Legend of Zelda. Perché no, il discorso non può essere esteso a tutti i videogiochi: la saga è nata con questa filosofia, noi siamo Link – sarebbe andare contro la sua natura.

E da qui il rischio, anzi più di uno.

Di creare una barriera con quel mondo.

Di non essere più capaci di tenere tra le mani la Spada che esorcizza il male.

Di non essere più l’Eroe.

Perché, in questo modo, non potremo più essere Link.

«Non sono un trofeo da vincere»: di giornaliste videoludiche, questioni di genere ed endorsement (assolutamente non richiesti)

È dal 2007 che scrivo di videogiochi. Ho iniziato principalmente per passione, buttando giù qualche pezzo per una piccola community dedicata a Nintendo Wii (Wiitalia), dove a nessuno fregava se avessi o meno le tette. Scrivevo e basta. Avevo qualche lettore affezionato, qualche detrattore, ma il mio essere donna non è mai stato né un problema né un merito. Nel frattempo, altre ragazze (poche, a dire la verità) scrivevano di videogiochi con lo stesso modus operandi: passione, talvolta racimolando qualche spicciolo tra news o recensioni, e poco altro. Insomma, seppur in numero ridotto, ci siamo sempre state. Esattamente come il pubblico delle videogiocatrici: ci siamo sempre state, abbiamo sempre giocato, con la differenza che non abbiamo mai sentito la necessità di dover fare proclami, ricordando al mondo che, seppur vagino-dotate, avevamo comunque pollici opponibili che ci permettevano di stringere un controller tra le mani.

E giocare.

Poi, non so quando sia successo di preciso (o forse sì, ma imputare tutto al #GamerGate sarebbe ingiusto), quelle donne che scrivevano di videogiochi sono diventate all’improvviso dei bersagli. Bersagli per insulti, bersagli per commenti truci (ho perso il conto del numero di “troie” che ho letto in giro negli anni), bersagli di veri e propri raid. Il nostro status femminile ha iniziato ad essere un problema perché, a detta di una fetta di utenza, «incapaci» a giocare e, di conseguenza, a scriverne. La storia continua ancora oggi, anche se in forma più ridotta (ma più violenta, va detto); i commenti continuano ad essere vomitevoli e immotivatamente offensivi e se un tempo molte di noi hanno lasciato correre, oggi la strada che si è scelto di intraprendere è quella di rispondere a tono. Esasperate dall’ennesimo giudizio non richiesto o messaggino su Messenger, a cui se non rispondi immediatamente viene additata come «stronza» o «cesso» (tratto da una storia vera, anche se non mia), le giornaliste e redattrici videoludiche hanno deciso di mettere in stand-by l’indifferenza e intervenire a gamba tesa. E questo non solo per rispetto della nostra persona e della nostra professione, ma anche per rendere il settore un luogo sereno e navigabile anche per le redattrici che verranno dopo di noi.

Siamo in grado di salvarci da sole. Grazie.

Se da un lato il numero di colleghe sta crescendo, dando anche spazio ad articoli che riflettono sulla rappresentazione femminile nei videogiochi e/o ad approfondimenti che ruotano attorno a temi importanti come l’inclusività e questioni di genere, nel frattempo ha iniziato a prendere forma un altro fenomeno, probabilmente più fastidioso e non meno dannoso rispetto a quello dell’utenza tossica.

Quello dell’endorsement dei colleghi uomini.

Ad un certo punto, qualcuno (uomo) ha deciso chi fosse più meritevole rispetto ad altre di essere letta, di diventare voce autorevole, di diventare penna da contendersi e a cui affidare approfondimenti. Si è scatenata la caccia alla token girl, a quella che – sempre a detta di un uomo – fosse degna di essere condivisa sui canali social. Ancora una volta, uomini che decidono, uomini che mettono una donna sul piedistallo perché venisse apprezzata, perché, ancora una volta, l’hanno selezionata loro – manco fossimo un taglio di carne pregiata – e perché, di conseguenza, devono prendersi un merito che a loro non è dovuto. Un po’ come Pippo Baudo, no? Per dire: «L’ho inventata io, l’ho inventata».

Vi do questa spiacevole notizia: No, cari, voi non avete inventato un cazzo. E se essere condivisa dai colleghi (tutti) per un pezzo è pur sempre motivo di orgoglio, molto spesso è facile leggerci della strumentalizzazione. Non in tutti i casi, sia ben chiaro, perché c’è sempre modo e modo di condividere un pezzo. E il modo sbagliato è quando, spesso in modo inconsapevole, si legittima un articolo/pezzo/approfondimento apponendo il proprio «sigillo di garanzia» in fase di condivisione, talvolta facendo passare il messaggio (lo ripeto ancora, in modo inconsapevole) che, in fin dei conti, quel lavoro merita di essere letto perché è un uomo ad averlo scovato e ad averlo deciso.

Fateci caso.

Ci siamo passate un po’ tutte e, un po’ come le mode, andiamo e veniamo. Per qualche mese ce ne sarà una, qualche dopo un’altra e un’altra ancora. Sembriamo come il prezzemolo. Ma sempre perché a deciderlo è un uomo. E non si discutono le buone intenzioni (l’educazione, la tua foto profilo “Buongiorno” e “Buonasera”…ops), sia chiaro, ma mi piacerebbe che passasse un messaggio importante: Non siamo una tendenza.

Se siamo qui (e mi permetto di usare il plurale), è solo perché noi ci siamo messe in gioco, noi abbiamo scritto, noi abbiamo prodotto, noi, ancora una volta, abbiamo fatto in modo che questo settore diventasse a poco a poco più inclusivo. Non dobbiamo dire grazie a nessuno, se non a noi stesse che ci siamo ritagliate uno spazio in questo mondo lavorando sodo.

Smettetela di parlare per conto nostro, ecco. Preferisco di gran lunga una critica costruttiva ad un articolo che diventare una quota rosa perché una redazione ha deciso, di punto in bianco, di essere inclusiva. Siamo ancora a questo punto, davvero?

Per eliminare una volta per tutte le barriere in questo settore è non far pesare l’eccezionalità del nostro lavoro, dell’essere giornaliste videoludiche. Perché non siamo animali in via d’estinzione e non abbiamo bisogno di essere protette. E soprattutto, se siamo qui (e siamo sempre più numerose, lo ripeto), è perché, forse, abbiamo un valore. Proprio come i nostri colleghi, di cui – e qui parlo in prima persona – condivido sempre l’operato e mai la persona. Alla firma, il più delle volte, manco ci bado.

E questo valore non l’ha deciso qualcuno.

Sono i nostri articoli a parlare per noi, nel bene o nel male. Che piaccia o no.

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – Cosa farcene della libertà nei videogiochi se non siamo in grado di gestirla?

È trascorsa una settimana da quando sono state pubblicate le prime recensioni di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Sono usciti i voti, i commenti della critica sono stati piuttosto unanime («Gioco della Madonna», «Esperienza solida», «Capolavoro definitivo», etc. – insomma, le solite frasi trite e ritrite, tanto da diventare meme, che noi scribacchini amiamo usare in ottica quote) e da sei giorni a questa parte, anche i videogiocatori ci hanno finalmente messo le mani.  Nel frattempo, dato di ieri, si scopre che Tears of the Kingdom ha venduto una cosa tipo oltre dieci (10) milioni di copie. Insomma, oltre dieci milioni di utenti (sì, sì, lo sappiamo che in realtà sono di più, visto che possono esserci più profili giocanti sulla stessa piattaforma) stanno spolpando Tears of the Kingdom da cima a fondo. E non stento a crederci, visto che ho praticamente l’intera lista di Amici su Nintendo Switch che sta trascorrendo i propri pomeriggi e serate catapultata nel Regno di Hyrule – I’m watching you!

Dunque, tutti – probabilmente anche voi che state leggendo – stanno prendendo confidenza con il nuovo gioco di Zelda, stanno provando a capire come funzionano le nuove skill di Link, stanno costruendo robot con piselli fiammeggianti, stanno crocefiggendo (letteralmente) i nemici, stanno forgiando veri e propri strumenti di tortura che Inquisizione-o-Medioevo-levateve-proprio. Che è un po’ il rovescio della medaglia, se così vogliamo definirlo, quando si dà ai giocatori troppa libertà, no? Che poi ci sta, eh?! Alla fine, stiamo pur sempre parlando di un prodotto di intrattenimento, con cui ognuno ci può fare un po’ quello che gli pare; anche se, detto tra noi, non sono mai stata un’amante di azioni sadiche neanche all’interno dei videogiochi. No, non ho mai chiuso il maggiordomo di Lara Croft nel frigorifero. E no, non ho mai tolto la scaletta dalla piscina in The Sims. Certo, obietterete voi tutti, ma mica ti fai problemi quando in The Last of Us fai una strage di nemici?! Oppure In Call of Duty mica ti poni lo scrupolo a fare il cecchino e collezionare kill? Ci tornerò su questo tema (quello della violenza gratuita e fine a se stessa), lo prometto, perché ha iniziato a mettere in discussione molte mie azioni in-game.

Ma andiamo per step, torniamo a Tears of the Kingdom.

Dicevamo, la libertà. La libertà è uno degli aspetti imprescindibili del videogioco contemporaneo. La possibilità di andare a briglie sciolte, non sentirci guidati da un essere superiore (noi, poveri illusi!) e avere opportunità d’intervento sui modi con cui approcciarci ad un’avventura…beh, tutto questo ci piace un sacco. Non è un tema recente, eh? Alla fine, già quando parliamo di character editor o, andando più alla lontana, parliamo di mod, il fatto di avere un certo potere di controllo su un mezzo che fa dell’interazione uomo-macchina il suo cuore nevralgico è quasi terapeutico. Che è un po’ quello che facciamo nella vita reale, no? Facciamo delle scelte. Prendiamo decisioni come ci pare e piace, e, soprattutto, siamo liberi di fare. Anche di sbagliare.

Che è un aspetto che mi è piaciuto parecchio di Tears of Kingdom. Anzi, l’errore è una componente decisiva del gioco e, per quanto mi riguarda, è anche l’elemento che più mi ha appassionato del suo gameplay. Il fatto che esistano infiniti modi per fare qualsiasi cosa – dove non c’è un modo univoco per risolvere una determinata situazione, che sia una boss fight, risolvere l’enigma di un santuario o raggiungere un punto sulla mappa – e avere anche il diritto di sbagliare nel tentativo di provarci, è liberatorio. Che cazzo, non siamo tutti piccoli, grandi maghi dei videogame©, e non vivere con l’ansia da prestazione (perché magari, per svariate ragioni, non riusciamo a risolverla come la maggior parte dei nostri amici che, oh, loro sono tipo bravissimi con l’arco o usare la paravela) è la parte più rassicurante di ToTK.

Change my mind.

Eppure, se questa libertà – creativa, espressiva, risolutiva, etc. – ci appaga e risponde a tutta una serie di esigenze e necessità, dall’altra è uno strumento con cui è difficile fare i conti. Perché non siamo più abituati. E qui farò il classico discorso da boomer, da chi coi videogiochi ci è nato, cresciuto, bla, bla, bla… i bei videogiochi di una volta, insomma. Per dire, tra i primi giochi che ho finito nella mia vita da gamer, c’è The Legend of Zelda: A Link to the Past. Avevo 8-9 anni, ci ho impiegato un anno. Banalmente, perché il gioco era tutto in inglese e comprendevo, forse, due parole su trenta. Provate voi a giocare a qualcosa in una lingua dove la frase più complessa che conosci, a quell’età, è The pen is on the table. Ecco. Lì avevo zero indicazioni, mi muovevo letteralmente alla cieca perché, nonostante avessi una guida testuale, non ero in grado di comprenderla del tutto. E un po’ mi piaceva, perché avevo l’opportunità di fare un po’ quello che volevo, nel tentativo di arrivare a capo, fare qualcosa. E la soddisfazione, credetemi, è indescrivibile. Non avere una voce che ti guida passo dopo passo, che non ti dice come fare è bello. Ma anche difficile da gestire.

Se ai miei tempi (per non parlare di chi è venuto ancor prima di me) era tutto un trial-and-error, dove i tutorial erano a malapena uno “schiaccia qui per saltare” e un “premi qui per colpire con la spada” senza neanche un contesto narrativo, nel tempo questo elemento è stato necessariamente cambiato. Perché il videogioco è diventato mainstream, è diventato popolare, è diventato democratico. Chiunque abbia un dispositivo elettronico in grado di riprodurre un videogioco, può, per l’appunto, videogiocare. E per chiunque intendo dal videogiocatore esperto a quello che al massimo si è concesso un paio di livelli a Candy Crush dopo cena o sull’autobus fino a chi sta iniziando ad avvicinarsi ora al medium videoludico. Per tale ragione, e direi per fortuna (io sono #teamvideogiochipertutti), il videogioco ha dovuto riscrivere (in parte) il suo DNA, optando per strutture meno complesse o che diventano complesse solo dopo che l’utente ha acquisito quella giusta dose di consapevolezza e conoscenza, magari grazie a ore di training e minuti/ore di tutorial. E non c’è nulla di male in tutto questo, anzi.

Il problema è che oggi, quando abbiamo tra le mani un’esperienza libera come Tears of the Kingdom, non sappiamo cosa farcene.

Mi correggo subito per non essere fraintesa: non sappiamo come usare tutta quella libertà. Perché se – come ribadito dal producer di ToTK, Eiji Aonuma – l’idea sottesa al gioco è quella di farci sentire creativi e unici proprio grazie a quell’immenso grado di libertà che abbiamo a disposizione, è proprio quella stessa libertà a farci sentire limitati, per certi versi. La paura è quella di non saperne venire a capo, nonostante abbiamo a disposizione una serie infinita di opportunità, semplicemente perché siamo stati disabituati ad essere creativi. Ad eccezione dei puzzle game nudi e crudi, difficilmente ci viene chiesto di metterci in gioco se non con le nostre abilità di videogiocatori. Pensare prima di agire è diventato sempre meno frequente, o meglio pensare fuori dagli schemi, e questo non perché ci sia stato un appiattimento del videogioco in quanto tale, proprio in virtù di quella democraticità di cui sopra. Ma perché, a volte, è più comodo. Stiamo pur sempre parlando di un prodotto d’intrattenimento, o sbaglio?

E poi, ripeto, c’è la paura di sbagliare. In una società in cui ci viene richiesto di imparare in fretta, di essere costantemente sul pezzo, di non cadere in fallo, di essere perfetti, un gioco come Tears of the Kingdom – dove il ritmo viene scandito da noi stessi – può destabilizzare. Non siamo più preparati all’errore perché la stragrande maggioranza dei videogiochi di oggi ci preparano a sufficienza. A non sbagliare, appunto. Il fatto che in questo gioco siamo liberi di approcciarci al suo mondo e alla sua avventura, a partire dai modi in cui possiamo risolvere le situazioni, come vogliamo, non permette neanche di cercare soluzioni univoche online. Perché non c’è una sola e unica strada. E da qui la possibile frustrazione, perché quella libertà non siamo più in grado di gestirla. Ancora, quanto meno.

Forse è proprio questo il grande pregio del nuovo The Legend of Zelda, se ci pensiamo: quel tornare a scendere a patti con le difficoltà.  Un’ode all’errore, che è esattamente ciò che ci rende differenti dalle macchine. Mi piace immaginare questo per Tears of the Kingdom: il fatto che oggi dobbiamo tornare a reimparare a sbagliare, perché è l’unico e solo modo che abbiamo per crescere.

E diventare piccoli eroi.

Proprio come Link.

Ellie e Riley in The Last of Us: quando il videogioco è più potente nel raccontare la semplicità dell’amore

Lo stiamo guardando tutti, The Last of Us. Lo abbiamo giocato, rigiocato, vissuto. E poi inciso a fuoco sulla nostra pelle, soprattutto quando è stato pubblicato The Last of Us – Parte 2: un po’ perché alcuni vuoti del primo gioco sono stati finalmente riempiti e abbiamo potuto darne un senso, anche piuttosto profondo; e un po’ perché è approdato sulle nostre PlayStation 4 proprio quando stavamo tornando a respirare, dopo aver vissuto un incubo impensabile – o quanto meno, quello che ritenevano possibile solo nella trama di un videogioco. Ora, quella che è stata un’esperienza che abbiamo consumato e che ci ha consumato da dentro in modo logorante, è diventata di pubblico dominio, grazie ad una serie televisiva a uso e consumo anche di un’audience che, probabilmente, su quel videogioco non ci ha mai neanche messo mano.

Ci stiamo avviando verso le sue battute finali. Senza troppi giri di parole, possiamo sostenere che The Last of Us si sia rivelato un prodotto televisivo unico nel suo genere, e la sua unicità sta nel fatto che è uno dei pochi, pochissimi adattamenti da videogioco a medium altro che non è inciampato nella trappola di una ricostruzione frame-by-frame (ad eccezione del primo episodio) dell’esperienza videoludica da cui è tratto. Il fatto che l’eccellente interpretazione di Pedro Pascal e Bella Ramsey – rispettivamente i Joel ed Ellie televisivi –abbia letteralmente cancellato dalla memoria la performance altrettanto magistrale dei Joel ed Ellie videoludici, Ashley Johnson e Troy Baker, è sintomo che l’operazione abbia funzionato. Niente effetto cosplayer, niente riproposizione parola per parola di quanto accaduto nel videogioco: la forza di The Last of Us come serie televisiva risiede nel suo essere, appunto, adattamento e non traduzione simultanea. Certo, era fondamentale che il corpus del materiale originale fosse attentamente preservato, cosa che è effettivamente avvenuta. Eppure, la scelta dello showrunner Craig Mazin di prendersi alcune libertà rispetto all’opera del 2013, magari espandendo il suo universo narrativo o modificando alcuni aspetti secondari per mere finalità televisive, ha funzionato molto bene nel complesso.

Quasi in tutto.

C’era un episodio, nello specifico, che attendevo con una certa trepidazione, proprio perché avevo amato molto l’espansione da cui è tratto: Left Behind. C’era qualcosa nella costruzione di quel legame amoroso, goffo e tenero, tra Ellie e Riley che non ho rintracciato, ad esempio, nella relazione più matura tra Ellie e Dina di The Last of Us – Parte 2. Ho sentito sulla pelle i batticuori di Ellie al solo pensiero di restare di nuovo in compagnia di Riley, quelle farfalle nello stomaco dettate dall’emozione inebriante di capire quale fosse il momento giusto per rubarle un bacio, la sua insicurezza ad aprire i suoi sentimenti alla sua migliore amica e amante. Non lo nascondo: sono facile all’emozione, soprattutto quando si tratta di videogiochi. Ammetto senza vergogna di aver pianto tutte le mie lacrime in compagnia di titoli come The Last Guardian, That Dragon Cancer, Life is Strange, Celeste e persino Super Mario Odyssey; e tutti per ragioni molto diverse. Il coinvolgimento (emotivo e non solo) che si innesca con i videogiochi, nel momento preciso in cui si prende tra le mani un controller o mouse/tastiera, è stato da sempre oggetto di un importante dibattito teorico, che affonda le sue radici sin dai primi studi sull’interazione uomo-macchina – pratica senza la quale il videogioco in quanto tale, almeno secondo alcuni teorici del medium videoludico, non esisterebbe.

Ma non è questo il punto.

Left Behind, e intendo l’episodio della serie televisiva, fallisce quasi completamente le intenzioni della sua controparte videoludica. È esattamente la mancanza di immersività – anche tattile, visto che nell’espansione siamo noi a controllare Ellie per tutto il tempo attraverso input sul pad – del suo adattamento televisivo a lasciar trasparire una sua inevitabile debolezza. Sebbene le interpretazioni di Bella Ramsey (Ellie) e Storm Reid (Riley) siano superlative e abbia adorato l’uso di pezzoni anni Ottanta (Take on me degli A-ha sulla scala mobile, Just like heaven dei Cure come musica d’accompagnamento della giostra dei cavalli, etc. – un déjà-vu di una mia playlist di Spotify, ops!) per creare il giusto mood psico-romantico da primo appuntamento in un mall illuminato a giorno, manca quel contatto. È in questo episodio che lo schermo televisivo non è più poroso come lo era stato fino a quel momento, e diventa impenetrabile. Ci limitiamo ad osservare la nascita di un amore, mentre in Left Behind videogioco lo viviamo. Forte, pulsante, esuberante.

Show me how you do it
And I promise you, I promise that
I’ll run away with you
I’ll run away with you

Left Behind episodio parte svantaggiato. Perché per immergerci a dovere nell’idillio amoroso di Ellie e Riley dobbiamo affidarci alle parole di due (splendide) canzoni d’amore, ai loro sguardi timidi, a quel bacio rubato. C’è una costruzione narrativa ad hoc, un crescendo di situazioni e atmosfere che ti portano ad empatizzare con loro. Mettiamola giù cruda e fredda: un buon lavoro di montaggio che, per forza di cose, ti porta a stabilire una connessione con loro, ma senza quel trasporto totale.   

All things that you say, yeah
Is it life or
Just to play my worries away?
You’re all the things I’ve got to remember
You’re shying away
I’ll be coming for you anyway

Nel videogioco, per forza di cose, è diverso.
Noi siamo lì, a tenere la mano virtuale di Riley.
A guardarla, a stringerla, a sentirla vicina.
Ed è potente, spiazzante, impetuoso.
Come non lo sarà mai nello stesso episodio televisivo.

Ecco, signori, la grande potenza del videogioco.

Il videogioco sta perdendo la sua anima: gioca alle sue regole oppure vattene

Quando è stata l’ultima volta avete provato un’emozione per un videogioco? E non parlo solo di emozione intesa come stato psichico affettivo, dettato magari da una storia o da un momento particolarmente toccanti all’interno di un’esperienza di gioco. Mi riferisco anche a quel momento in cui avete stretto forte il controller tra le mani e avete sperato che quel momento speciale non finisse mai. Oppure, al contrario, eravate così dentro a quell’esperienza che quel momento è sembrato finire in un lampo, bruciato più in fretta di quando avreste voluto.

Ripercorro il mio ultimo anno videoludico e non c’è un videogioco che mi abbia regalato quel momento speciale. Credo solo Immortality, ma per ragioni ben lontane dall’emozione spicciola. Nell’opera di Sam Barlow c’è un ragionamento, una struttura complessa, un modo di giocare con il videogioco che lo rende inedito rispetto alla maggior parte delle produzioni contemporanee.

A tal proposito, leggevo con interesse qualche giorno fa un articolo della collega Stefania Sperandio della testata Spaziogames, dal titolo «Mettere i videogiocatori al centro del videogioco è stato un errore» (potete leggerlo qui, fatelo), in cui propone un’analisi piuttosto lucida e approfondita secondo cui, e qui semplifico, l’aver costruito intere esperienze di gioco intorno agli usi e consumi dell’utente abbia in qualche modo depauperato la forza creativa di un autore o di un team di sviluppo. C’è una riflessione anche piuttosto caustica su quanto l’aver accondisceso a determinate esigenze dell’utenza abbia completamente annullato il concetto di autorialità nel videogioco.

Appiattire le proprie creazioni per venire incontro alle esigenze di un pubblico, da un lato sempre più largo e dall’altro sempre più votato al trend del momento, ha in qualche modo annullato le possibilità di un autore di diventare riconoscibile, di imprimere la propria firma su di un’opera. Ad eccezione di quei pochi creator quali Miyazaki, Myamoto o Kojima (gli stessi che Stefania cita nel suo pezzo, e a ragione) che sono riusciti a sviluppare idee proprie – talvolta anche andando controcorrente rispetto alle tendenze imposte dal mercato – l’attuale sistema produttivo videoludico è accartocciato su stesso, succube di mode e tendenze senza anima.

E la mancanza di anima nella maggior parte dei videogiochi contemporanei è palese.

Faccio un passo indietro e torno a Sam Barlow e Immortality, forse perché è l’unico titolo tra quelli che ho riprodotto negli ultimi 12 mesi che va in controtendenza rispetto a quanto ho appena detto ed è stato analizzato in modo molto accurato da Stefania Sperandio. Anzi, mi permetto di aggiungere alla mia lista del 2022 anche Scorn di Ebb Software – su cui poi torno in modo più approfondito tra poco. Due esperienze che vanno in una direzione ostinata e contraria rispetto alle tendenze attuali e che tornano ad essere videogiochi in senso stretto. Vi vedo pronti con il vostro fucile da cecchino a dire la vostra su Immortality: «Ma perché, Immortality è un videogioco? E’ cinema che si presta alle meccaniche videoludiche. E’ un film interattivo!».

Personalmente, niente di più falso.

Entrare in un gioco come Immortality è stato come fare un salto nel passato, ma in senso buono. E lo dirò senza vergogna: ancor più di altri titoli precedenti di Barlow, come Her Story (che ho profondamente amato). La scelta di gettare il giocatore in pasto all’esperienza, senza fornire alcun tipo di contesto narrativo – ad eccezione di quello che, agli occhi di videogiocatori più allenati e/o conoscitori dello stile di Barlow, può essere scovato e consultato nel menu principale del gioco, ma senza alcuna indicazione in-game – è esattamente quello che mi aspetto da un autore come Sam Barlow. E’ il suo stile, la sua firma, il suo tocco. Ricostruiscitu, fai fatica tu, metti insieme i pezzi tu. Non è sceso in alcun modo a compromessi, neanche se distribuito su una piattaforma generalista come Xbox GamePass.

Se ne frega del giocatore: o stai alle sue regole o te ne vai.

Addìos!

Ed è quello che mi ha emozionato profondamente come non succedeva da tempo: l’autore mi ha chiesto di sfidarlo, di accedere a quella che è la sua filosofia autoriale e provare a giocarci seguendo le sue regole. Sam Barlow non mi ha preso per mano, non mi ha detto «Cara giocatrice, sentiti come a casa tua». No, Barlow mi ha detto chiaramente: «Questa è casa mia e faccio il cazzo che voglio. Semmai, sei tu a doverti adeguare». E, capitemi, non sto parlando della tanto agognata difficoltà, metro di misura solitamente abusato dai giocatori old-school per ricordarci quanto loro sono bravi rispetto ai nabbi che non sanno giocare (ma il videogioco non doveva essere un medium inclusivo, in fin dei conti?). Ciò che intendo dire è che un autore come Barlow ha preferito restare coerente con la sua idea creativa, motivandola e ampliandola. Non ha appiattito ciò che è sempre stato il suo modo di fare videogiochi, ma, anzi, lo ha rinforzato.

Seppur in modo molto diverso, anche Scorn entra di diritto tra quei pochi giochi che ha dimostrato di avere un’anima. Anche nel caso del titolo di Ebb Software, ciò che emerge è un pensiero, un’idea, un tocco di originalità tale da renderlo unico: e questo è, ovviamente, la scelta di propendere per uno stile artistico che richiama le opere di Giger e Beksiński. Ma non solo. Un titolo non particolarmente immediato, almeno per chi vuole andare a scavare oltre la sua patina survival horror, ma che sfrutta l’orrore osceno di un mondo aberrante per far sì che il giocatore perda se stesso nei cunicoli e nei corridoi labirintici del gioco. Nel suo farsi orrore perturbante, Scorn catapulta l’utente in un universo senza regole, senza mappe, senza indicazioni; libero, ma al tempo stesso perduto – e ancora una volta, in controtendenza rispetto alle esperienze che imprigionano i giocatori in mappe costellate di riferimenti e nell’illusione di mondi aperti. Quest’ultimi, che vanno tanto di moda da qualche anno a questa parte.

ImmortalityScorn sono open-world, chiaro, eppure quel senso di libertà e di paura dell’ignoto che sono in grado di generare lasciando a briglie sciolte chi vi si avvicina sono quel genere di emozioni che oggi, in un videogioco, ho la necessità di trovare. Una libertà dettata dal fatto che non esistono schemi precostituiti, anche se mi viene detto che sono svincolata dall’eseguire tot missioni nell’ordine che preferisco. Non sono più io al centro del gioco – come sostenuto da Stefania Sperandio nel suo illuminante articolo, con tutte le ripercussioni che questa pratica ha inevitabilmente sull’industria nel suo complesso – ma è il gioco, l’autore e la sua idea a predominare. Come è giusto che sia.

Siamo noi, in qualità di fruitori, a doverci sottomettere al mezzo – e non deve in alcun modo accadere il contrario.

Pena, come si diceva in apertura, l’appiattimento totale di un’esperienza come quella videoludica che, ad oggi, non riesce più a regalarmi alcuna emozione. Passa in trasparenza, scivola addosso e non resta nulla.

Vuota, inutile, senza anima.

Ancora.

La mia stanza dei videogiochi

Dare vita a un blog in un’era in cui Tik-Tok e Twitch sono le uniche piattaforme in cui vale la pena esistere per avere qualcosa da dire è un rischio. Anti-diluviano, per dirla con tutta onestà. Eppure, la scrittura – qualunque essa sia – è sempre stata per me un rifugio e il solo e unico modo per comunicare e connettermi agli altri. Una stanza tutta per me, come lo sono sempre stati i videogiochi fin da quando ne ho memoria.

Proprio perché mia in tutto e per tutto, questa stanza vuole essere uno spazio in cui lasciarmi andare a riflessioni, a pensieri – o a flussi di coscienza, se vogliamo – relativi a tutto ciò che riguarda questo medium, con cui stringo una relazione tra le più longeve della mia vita. Ci ho pensato a lungo, non lo nego, se lanciarmi in questa nuova sfida, lontana dalle pagine per cui scrivo per arrotondare in una vita di precarietà; il tempo è quello che è, in fin dei conti, ma sapere di poter contare su una safe zone in cui rifugiarmi e avere la libertà di esprimermi – senza i vincoli dettati dalla posizione professionale che ricopro – è rassicurante. Con questo non intendo trasformare questo spazio in un luogo intimista o personale, in cui riversare i miei stati d’animo come nei blog di annata; no, la mia idea è che questa stanza rappresenti quel luogo in cui sia possibile cercare un confronto su temi di qualsiasi natura, e soprattutto, non necessariamente mainstream.

Mi piace l’idea di accogliervi qui, nella mia stanza dei videogiochi, far sì che questa diventi terreno fertile di dibattiti, di punti di vista (anche discordanti), e fare in modo che diventi un punto di incontro per chi, come me, ha speso gran parte della sua vita dietro ai giochini elettronici.

Mettetevi comodi, prendete il vostro pad in mano e unitevi a questa nuova partita da scrivere insieme.

Benvenuti!