Ellie e Riley in The Last of Us: quando il videogioco è più potente nel raccontare la semplicità dell’amore

Lo stiamo guardando tutti, The Last of Us. Lo abbiamo giocato, rigiocato, vissuto. E poi inciso a fuoco sulla nostra pelle, soprattutto quando è stato pubblicato The Last of Us – Parte 2: un po’ perché alcuni vuoti del primo gioco sono stati finalmente riempiti e abbiamo potuto darne un senso, anche piuttosto profondo; e un po’ perché è approdato sulle nostre PlayStation 4 proprio quando stavamo tornando a respirare, dopo aver vissuto un incubo impensabile – o quanto meno, quello che ritenevano possibile solo nella trama di un videogioco. Ora, quella che è stata un’esperienza che abbiamo consumato e che ci ha consumato da dentro in modo logorante, è diventata di pubblico dominio, grazie ad una serie televisiva a uso e consumo anche di un’audience che, probabilmente, su quel videogioco non ci ha mai neanche messo mano.

Ci stiamo avviando verso le sue battute finali. Senza troppi giri di parole, possiamo sostenere che The Last of Us si sia rivelato un prodotto televisivo unico nel suo genere, e la sua unicità sta nel fatto che è uno dei pochi, pochissimi adattamenti da videogioco a medium altro che non è inciampato nella trappola di una ricostruzione frame-by-frame (ad eccezione del primo episodio) dell’esperienza videoludica da cui è tratto. Il fatto che l’eccellente interpretazione di Pedro Pascal e Bella Ramsey – rispettivamente i Joel ed Ellie televisivi –abbia letteralmente cancellato dalla memoria la performance altrettanto magistrale dei Joel ed Ellie videoludici, Ashley Johnson e Troy Baker, è sintomo che l’operazione abbia funzionato. Niente effetto cosplayer, niente riproposizione parola per parola di quanto accaduto nel videogioco: la forza di The Last of Us come serie televisiva risiede nel suo essere, appunto, adattamento e non traduzione simultanea. Certo, era fondamentale che il corpus del materiale originale fosse attentamente preservato, cosa che è effettivamente avvenuta. Eppure, la scelta dello showrunner Craig Mazin di prendersi alcune libertà rispetto all’opera del 2013, magari espandendo il suo universo narrativo o modificando alcuni aspetti secondari per mere finalità televisive, ha funzionato molto bene nel complesso.

Quasi in tutto.

C’era un episodio, nello specifico, che attendevo con una certa trepidazione, proprio perché avevo amato molto l’espansione da cui è tratto: Left Behind. C’era qualcosa nella costruzione di quel legame amoroso, goffo e tenero, tra Ellie e Riley che non ho rintracciato, ad esempio, nella relazione più matura tra Ellie e Dina di The Last of Us – Parte 2. Ho sentito sulla pelle i batticuori di Ellie al solo pensiero di restare di nuovo in compagnia di Riley, quelle farfalle nello stomaco dettate dall’emozione inebriante di capire quale fosse il momento giusto per rubarle un bacio, la sua insicurezza ad aprire i suoi sentimenti alla sua migliore amica e amante. Non lo nascondo: sono facile all’emozione, soprattutto quando si tratta di videogiochi. Ammetto senza vergogna di aver pianto tutte le mie lacrime in compagnia di titoli come The Last Guardian, That Dragon Cancer, Life is Strange, Celeste e persino Super Mario Odyssey; e tutti per ragioni molto diverse. Il coinvolgimento (emotivo e non solo) che si innesca con i videogiochi, nel momento preciso in cui si prende tra le mani un controller o mouse/tastiera, è stato da sempre oggetto di un importante dibattito teorico, che affonda le sue radici sin dai primi studi sull’interazione uomo-macchina – pratica senza la quale il videogioco in quanto tale, almeno secondo alcuni teorici del medium videoludico, non esisterebbe.

Ma non è questo il punto.

Left Behind, e intendo l’episodio della serie televisiva, fallisce quasi completamente le intenzioni della sua controparte videoludica. È esattamente la mancanza di immersività – anche tattile, visto che nell’espansione siamo noi a controllare Ellie per tutto il tempo attraverso input sul pad – del suo adattamento televisivo a lasciar trasparire una sua inevitabile debolezza. Sebbene le interpretazioni di Bella Ramsey (Ellie) e Storm Reid (Riley) siano superlative e abbia adorato l’uso di pezzoni anni Ottanta (Take on me degli A-ha sulla scala mobile, Just like heaven dei Cure come musica d’accompagnamento della giostra dei cavalli, etc. – un déjà-vu di una mia playlist di Spotify, ops!) per creare il giusto mood psico-romantico da primo appuntamento in un mall illuminato a giorno, manca quel contatto. È in questo episodio che lo schermo televisivo non è più poroso come lo era stato fino a quel momento, e diventa impenetrabile. Ci limitiamo ad osservare la nascita di un amore, mentre in Left Behind videogioco lo viviamo. Forte, pulsante, esuberante.

Show me how you do it
And I promise you, I promise that
I’ll run away with you
I’ll run away with you

Left Behind episodio parte svantaggiato. Perché per immergerci a dovere nell’idillio amoroso di Ellie e Riley dobbiamo affidarci alle parole di due (splendide) canzoni d’amore, ai loro sguardi timidi, a quel bacio rubato. C’è una costruzione narrativa ad hoc, un crescendo di situazioni e atmosfere che ti portano ad empatizzare con loro. Mettiamola giù cruda e fredda: un buon lavoro di montaggio che, per forza di cose, ti porta a stabilire una connessione con loro, ma senza quel trasporto totale.   

All things that you say, yeah
Is it life or
Just to play my worries away?
You’re all the things I’ve got to remember
You’re shying away
I’ll be coming for you anyway

Nel videogioco, per forza di cose, è diverso.
Noi siamo lì, a tenere la mano virtuale di Riley.
A guardarla, a stringerla, a sentirla vicina.
Ed è potente, spiazzante, impetuoso.
Come non lo sarà mai nello stesso episodio televisivo.

Ecco, signori, la grande potenza del videogioco.

Lascia un commento