The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – Cosa farcene della libertà nei videogiochi se non siamo in grado di gestirla?

È trascorsa una settimana da quando sono state pubblicate le prime recensioni di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Sono usciti i voti, i commenti della critica sono stati piuttosto unanime («Gioco della Madonna», «Esperienza solida», «Capolavoro definitivo», etc. – insomma, le solite frasi trite e ritrite, tanto da diventare meme, che noi scribacchini amiamo usare in ottica quote) e da sei giorni a questa parte, anche i videogiocatori ci hanno finalmente messo le mani.  Nel frattempo, dato di ieri, si scopre che Tears of the Kingdom ha venduto una cosa tipo oltre dieci (10) milioni di copie. Insomma, oltre dieci milioni di utenti (sì, sì, lo sappiamo che in realtà sono di più, visto che possono esserci più profili giocanti sulla stessa piattaforma) stanno spolpando Tears of the Kingdom da cima a fondo. E non stento a crederci, visto che ho praticamente l’intera lista di Amici su Nintendo Switch che sta trascorrendo i propri pomeriggi e serate catapultata nel Regno di Hyrule – I’m watching you!

Dunque, tutti – probabilmente anche voi che state leggendo – stanno prendendo confidenza con il nuovo gioco di Zelda, stanno provando a capire come funzionano le nuove skill di Link, stanno costruendo robot con piselli fiammeggianti, stanno crocefiggendo (letteralmente) i nemici, stanno forgiando veri e propri strumenti di tortura che Inquisizione-o-Medioevo-levateve-proprio. Che è un po’ il rovescio della medaglia, se così vogliamo definirlo, quando si dà ai giocatori troppa libertà, no? Che poi ci sta, eh?! Alla fine, stiamo pur sempre parlando di un prodotto di intrattenimento, con cui ognuno ci può fare un po’ quello che gli pare; anche se, detto tra noi, non sono mai stata un’amante di azioni sadiche neanche all’interno dei videogiochi. No, non ho mai chiuso il maggiordomo di Lara Croft nel frigorifero. E no, non ho mai tolto la scaletta dalla piscina in The Sims. Certo, obietterete voi tutti, ma mica ti fai problemi quando in The Last of Us fai una strage di nemici?! Oppure In Call of Duty mica ti poni lo scrupolo a fare il cecchino e collezionare kill? Ci tornerò su questo tema (quello della violenza gratuita e fine a se stessa), lo prometto, perché ha iniziato a mettere in discussione molte mie azioni in-game.

Ma andiamo per step, torniamo a Tears of the Kingdom.

Dicevamo, la libertà. La libertà è uno degli aspetti imprescindibili del videogioco contemporaneo. La possibilità di andare a briglie sciolte, non sentirci guidati da un essere superiore (noi, poveri illusi!) e avere opportunità d’intervento sui modi con cui approcciarci ad un’avventura…beh, tutto questo ci piace un sacco. Non è un tema recente, eh? Alla fine, già quando parliamo di character editor o, andando più alla lontana, parliamo di mod, il fatto di avere un certo potere di controllo su un mezzo che fa dell’interazione uomo-macchina il suo cuore nevralgico è quasi terapeutico. Che è un po’ quello che facciamo nella vita reale, no? Facciamo delle scelte. Prendiamo decisioni come ci pare e piace, e, soprattutto, siamo liberi di fare. Anche di sbagliare.

Che è un aspetto che mi è piaciuto parecchio di Tears of Kingdom. Anzi, l’errore è una componente decisiva del gioco e, per quanto mi riguarda, è anche l’elemento che più mi ha appassionato del suo gameplay. Il fatto che esistano infiniti modi per fare qualsiasi cosa – dove non c’è un modo univoco per risolvere una determinata situazione, che sia una boss fight, risolvere l’enigma di un santuario o raggiungere un punto sulla mappa – e avere anche il diritto di sbagliare nel tentativo di provarci, è liberatorio. Che cazzo, non siamo tutti piccoli, grandi maghi dei videogame©, e non vivere con l’ansia da prestazione (perché magari, per svariate ragioni, non riusciamo a risolverla come la maggior parte dei nostri amici che, oh, loro sono tipo bravissimi con l’arco o usare la paravela) è la parte più rassicurante di ToTK.

Change my mind.

Eppure, se questa libertà – creativa, espressiva, risolutiva, etc. – ci appaga e risponde a tutta una serie di esigenze e necessità, dall’altra è uno strumento con cui è difficile fare i conti. Perché non siamo più abituati. E qui farò il classico discorso da boomer, da chi coi videogiochi ci è nato, cresciuto, bla, bla, bla… i bei videogiochi di una volta, insomma. Per dire, tra i primi giochi che ho finito nella mia vita da gamer, c’è The Legend of Zelda: A Link to the Past. Avevo 8-9 anni, ci ho impiegato un anno. Banalmente, perché il gioco era tutto in inglese e comprendevo, forse, due parole su trenta. Provate voi a giocare a qualcosa in una lingua dove la frase più complessa che conosci, a quell’età, è The pen is on the table. Ecco. Lì avevo zero indicazioni, mi muovevo letteralmente alla cieca perché, nonostante avessi una guida testuale, non ero in grado di comprenderla del tutto. E un po’ mi piaceva, perché avevo l’opportunità di fare un po’ quello che volevo, nel tentativo di arrivare a capo, fare qualcosa. E la soddisfazione, credetemi, è indescrivibile. Non avere una voce che ti guida passo dopo passo, che non ti dice come fare è bello. Ma anche difficile da gestire.

Se ai miei tempi (per non parlare di chi è venuto ancor prima di me) era tutto un trial-and-error, dove i tutorial erano a malapena uno “schiaccia qui per saltare” e un “premi qui per colpire con la spada” senza neanche un contesto narrativo, nel tempo questo elemento è stato necessariamente cambiato. Perché il videogioco è diventato mainstream, è diventato popolare, è diventato democratico. Chiunque abbia un dispositivo elettronico in grado di riprodurre un videogioco, può, per l’appunto, videogiocare. E per chiunque intendo dal videogiocatore esperto a quello che al massimo si è concesso un paio di livelli a Candy Crush dopo cena o sull’autobus fino a chi sta iniziando ad avvicinarsi ora al medium videoludico. Per tale ragione, e direi per fortuna (io sono #teamvideogiochipertutti), il videogioco ha dovuto riscrivere (in parte) il suo DNA, optando per strutture meno complesse o che diventano complesse solo dopo che l’utente ha acquisito quella giusta dose di consapevolezza e conoscenza, magari grazie a ore di training e minuti/ore di tutorial. E non c’è nulla di male in tutto questo, anzi.

Il problema è che oggi, quando abbiamo tra le mani un’esperienza libera come Tears of the Kingdom, non sappiamo cosa farcene.

Mi correggo subito per non essere fraintesa: non sappiamo come usare tutta quella libertà. Perché se – come ribadito dal producer di ToTK, Eiji Aonuma – l’idea sottesa al gioco è quella di farci sentire creativi e unici proprio grazie a quell’immenso grado di libertà che abbiamo a disposizione, è proprio quella stessa libertà a farci sentire limitati, per certi versi. La paura è quella di non saperne venire a capo, nonostante abbiamo a disposizione una serie infinita di opportunità, semplicemente perché siamo stati disabituati ad essere creativi. Ad eccezione dei puzzle game nudi e crudi, difficilmente ci viene chiesto di metterci in gioco se non con le nostre abilità di videogiocatori. Pensare prima di agire è diventato sempre meno frequente, o meglio pensare fuori dagli schemi, e questo non perché ci sia stato un appiattimento del videogioco in quanto tale, proprio in virtù di quella democraticità di cui sopra. Ma perché, a volte, è più comodo. Stiamo pur sempre parlando di un prodotto d’intrattenimento, o sbaglio?

E poi, ripeto, c’è la paura di sbagliare. In una società in cui ci viene richiesto di imparare in fretta, di essere costantemente sul pezzo, di non cadere in fallo, di essere perfetti, un gioco come Tears of the Kingdom – dove il ritmo viene scandito da noi stessi – può destabilizzare. Non siamo più preparati all’errore perché la stragrande maggioranza dei videogiochi di oggi ci preparano a sufficienza. A non sbagliare, appunto. Il fatto che in questo gioco siamo liberi di approcciarci al suo mondo e alla sua avventura, a partire dai modi in cui possiamo risolvere le situazioni, come vogliamo, non permette neanche di cercare soluzioni univoche online. Perché non c’è una sola e unica strada. E da qui la possibile frustrazione, perché quella libertà non siamo più in grado di gestirla. Ancora, quanto meno.

Forse è proprio questo il grande pregio del nuovo The Legend of Zelda, se ci pensiamo: quel tornare a scendere a patti con le difficoltà.  Un’ode all’errore, che è esattamente ciò che ci rende differenti dalle macchine. Mi piace immaginare questo per Tears of the Kingdom: il fatto che oggi dobbiamo tornare a reimparare a sbagliare, perché è l’unico e solo modo che abbiamo per crescere.

E diventare piccoli eroi.

Proprio come Link.

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